Kant aveva riconosciuto nell’io penso il principio supremo di tutta la conoscenza. Ma l’io penso è un atto di autodeterminazione esistenziale, che suppone già data l’esistenza, è quindi attività anche se limitata e il suo limite consiste nell’intuizione sensibile. Nasce il problema del materiale sensibile e risulta impossibile la derivazione di esso dalla cosa in sé in quanto quest’ultima è esterna alla conoscenza e indipendente da essa. Fichte trae per la prima volta le conseguenze di queste premesse: se l’io è l’unico principio, non solo formale ma anche materiale del conoscere, se alla sua attività è dovuto non solo il pensiero della realtà oggettiva, ma questa realtà stessa nel suo contenuto materiale, è evidente che l’io è non solo finito, ma infinito.
In Kant l’io è finito perché limitato dalla cosa in sé ed è il principio formale del conoscere. Per Fichte l’io è infinito poiché tutto esiste nell’io e per l’io ed è il principio formale e materiale a cui si deve non solo la forma della realtà, ma la realtà stessa.
Fichte è considerato il filosofo dell’infinità dell’Io e quindi della sua assoluta libertà. La deduzione di Kant è una deduzione trascendentale, cioè diretta a giustificare la validità delle condizioni soggettive della conoscenza. La deduzione di Fichte è una deduzione “assoluta” o metafisica, perché deve far derivare dall’Io sia il soggetto che l’oggetto del conoscere. La deduzione di Kant mette capo ad una possibilità trascendentale che implica sempre un rapporto tra l’io e l’oggetto fenomenico. La deduzione di Fichte mette capo ad un principio assoluto, che pone o crea il soggetto e l’oggetto fenomenici in virtù di un’attività creatrice, cioè di un’intuizione intellettuale. La Dottrina della scienza ha lo scopo di dedurre da questo principio l’intero mondo del sapere necessariamente in modo da dare il sistema unico e compiuto di esso. Non deduce tuttavia il principio stesso della deduzione che è l’Io.
Fichte vuole costruire un sistema grazie al quale la filosofia, cessando di essere semplice ricerca del sapere, diviene un sapere assoluto e perfetto. Il concetto della Dottrina della scienza è quello di una scienza della scienza cioè di un sapere che metta in luce il principio su cui si fonda la validità di ogni scienza e che a sua volta si fondi sullo stesso principio.
Il principio della dottrina della scienza è l’Io o l’Autocoscienza. Noi possiamo dire che qualcosa esiste solo rapportandolo alla nostra coscienza. A sua volta la coscienza è tale solo in quanto è coscienza di se medesima, ovvero autocoscienza. L’essere per noi (l’oggetto) è possibile soltanto sotto la condizione della coscienza (del soggetto) e questa soltanto sotto la condizione dell’autocoscienza. La coscienza è il fondamento dell’essere, l’autocoscienza è il fondamento della coscienza.
La prima Dottrina della scienza è il tentativo di dedurre dal principio dell’autocoscienza la vita teoretica e pratica dell’uomo. Fichte stabilisce i tre principi o momenti fondamentali di questa deduzione. Il primo principio è ricavato da una riflessione sulla legge di identità (per cui A=A) che la filosofia tradizionale aveva considerato come la base universale del sapere. In realtà tale legge implica un principio ulteriore che è l’Io poiché senza l’identità dell’Io l’identità logica non si giustifica. Ma l’Io non può porre quel rapporto se non pone se stesso, se cioè non si pone esistente. Di conseguenza, il principio supremo del sapere è l’Io stesso che si pone da sé. Caratteristica dell’Io è infatti l’auto-creazione; l’essere dell’Io appare il frutto della sua azione e il risultato della sua libertà. Questa prerogativa dell’Io viene denominata da Fichte Tathandlung, termine con cui il filosofo intende appunto dire che l’Io è attività agente (Tat) e prodotto dell’azione stessa (Handlung).
Il secondo principio stabilisce che “l’Io pone il non-io”, ovvero che l’Io non solo pone se stesso, ma oppone anche a se stesso qualcosa che, in quanto gli è opposto, è un non-io (oggetto, mondo, natura). Tale non-io è tuttavia posto dall’Io ed è quindi nell’’Io. Questo secondo principio non è deducibile dal primo. Affinché si possa creare una conoscenza deve esistere un’opposizione in quanto un Io senza non-io, cioè un soggetto senza oggetto, un’attività senza ostacolo, un positivo senza un negativo, non avrebbe senso.
Il terzo principio mostra come l’Io, avendo posto il non-io, si trovi ad essere limitato da esso, esattamente come quest’ultimo risulta limitato dall’Io. Con il terzo principio perveniamo alla situazione concreta del mondo, nella quale abbiamo una molteplicità di io finiti che hanno di fronte a sé una molteplicità di oggetti a loro volta finiti. Il terzo principio si può esprimere con la formula “l’Io oppone nell’io all’io divisibile un non-io divisibile”.
I tre momenti della deduzione fichtiana sono:
1) l’Io pone se stesso (tesi) come attività autocreatrice e infinita, come condizione incondizionata di se stesso e della realtà, come principio primo del sapere;
2) l’Io pone il non-io (antitesi). Per realizzarsi come attività, l’Io è costretto a contrapporre a se stesso in se stesso qualcos’altro da sé;
3) l’Io oppone, nell’Io, ad un io divisibile un non-io divisibile (sintesi). Avendo posto il non-io, l’Io si trova ad esistere sotto forma di io divisibile (molteplice e finito) limitato da una serie di non-io altrettanto divisibili (molteplici e finiti).
Questi tre principi stabiliscono: a) l’esistenza di un Io infinito, attività assolutamente libera e creatrice; b) l’esistenza di un io finito (perché limitato dal non-io), c) la realtà di un non-io, cioè dell’oggetto (mondo o natura) che si oppone all’io finito, ma è ricompresso nell’Io infinito, dal quale è posto. I tre principi comunque non vanno interpretati in modo cronologico,ma logico in quanto con la sua deduzione Fichte ha voluto mettere in luce come la natura non sia una realtà autonoma, che precede lo spirito, ma qualcosa che esiste soltanto come momento dialettico della vita dell’Io e quindi per l’Io e nell’Io. In virtù di questa dottrina, l’Io per Fichte, risulta finito ed infinito al tempo stesso:finito in quanto limitato dal non-io e infinito perché quest’ultimo (cioè la natura) esiste solo in relazione all’Io e dentro l’Io. L’Io “infinito” o “puro” di cui parla Fichte non è qualcosa di diverso dall’insieme degli io finiti nei quali esso si realizza, è la loro meta ideale; in altri termini gli io finiti sono l’Io infinito e gli io empirici sono l’Io “puro” solo in quanto tendono ad esserlo. Per Io “infinito” o “puro” Fichte intende un Io libero, ossia uno spirito vittorioso sui propri ostacoli, situazione che per l’uomo rappresenta un semplice ideale. L’uomo è uno sforzo infinito verso la libertà, ovvero una lotta inesauribile contro il limite, e quindi contro la natura esterna (le cose) ed interna (gli istinti irrazionali e l’egoismo). Il compito proprio dell’uomo è l’umanizzazione del mondo ossia il tentativo incessante si “spiritualizzare” le cose e noi stessi, dando origine, da un lato, ad una natura plasmata secondo i nostri scopi e dall’altro ad una società di esseri liberi e razionali. Il compito dell’Io è tuttavia una missione mai conclusa, poiché se l’Io, la cui essenza è lo sforzo (Streben) riuscisse davvero a superare tutti i suoi ostacoli, cesserebbe di esistere e subentrerebbe la stasi della morte. Al posto del concetto statico di perfezione, tipico della filosofia classica, con Fichte subentra un concetto dinamico, che pone la perfezione nello sforzo indefinito di auto-perfezionamento. I tre principi rappresentano anche la piattaforma della deduzione fichtiana delle categorie. Infatti il porsi dell’Io,l’opposizione del non-io all’io e il limitarsi reciproco dell’io e del non-io corrispondono alle tre categorie kantiane di qualità: affermazione, negazione e limitazione. Dal concetto di un io divisibile e di un non-io divisibilederivano le categorie di quantità: unità, pluralità e totalità. Da un io soggetto auto-determinantesi (sostanza) , da un non-io che determina (causa) e da un io empirico che è determinato (effetto) ed un reciproco condizionarsi fra io e non-io (azione reciproca) scaturiscono anche le tre categorie di relazione: sostanza, causa-effetto e azione reciproca.
L’Io presenta una struttura triadica e “dialettica” articolata nei tre momenti di tesi-antitesi-sintesi e incentrata sul concetto di una “sintesi degli opposti”. La natura del nostro spirito è tale che ogni tesi suscita un’antitesi,ogni dire un contraddire. La sintesi non è la pura e semplice ripetizione della tesi iniziale, ma è la riaffermazione di essa, arricchita e rafforzata dal superamento dell’antitesi. Lo spirito vive di opposizioni e lo schema triadico simboleggia questo processo vitale. Raggiunta la sintesi lo spirito subisce un arresto , ma questo arresto prelude ad un nuovo slancio. La visione dialettica del reale è una visione dialettica e progressiva che afferma in tutta la sua pienezza il concetto del divenire.
Fichte dopo aver affermato che idealismo e dogmatismo sono gli unici due sistemi filosofici possibili, illustra i motivi che spingono alla “scelta” dell’uno e dell’altro sistema. Fichte sostiene che la filosofia è una riflessione sull’esperienza che ha come scopo la messa in luce del fondamento dell’esperienza stessa. Poiché nell’esperienza sono in gioco “la cosa” (l’oggetto) e “l’intelligenza” (l’io o il soggetto), la filosofia può assumere la forma dell’idealismo (che consiste nel puntare sull’intelligenza, facendo una preliminare astrazione dalla cosa) o del dogmatismo (che consiste nel puntare sulla cosa in sé facendo una preliminare astrazione dall’intelligenza). In altri termini, l’idealismo consiste nel partire dall’Io o dal soggetto per poi spiegare la cosa o l’oggetto. Viceversa il dogmatismo consiste nel partire dalla cosa in sé o dall’oggetto per poi spiegare l’io o il soggetto.
Secondo Fichte nessuno di questi due sistemi riesce e confutare direttamente quello opposto e quindi la scelta fra i due massimi sistemi del mondo deriva da una differenza di “inclinazione” e di “interesse”, ovvero da una presa di posizione in campo etico. Secondo Fichte il dogmatismo, che si configura come una forma di realismo in gnoseologia e di naturalismo o materialismo in metafisica, finisce sempre per rendere nulla o problematica la libertà. Al contrario, l’idealismo, facendo dell’Io un’attività auto-creatrice in funzione di cui esistono gli oggetti, finisce sempre per strutturarsi come una rigorosa dottrina della libertà. Queste due filosofie hanno come corrispettivo esistenziale, due tipi di umanità. Da un lato vi sono individui che trovando se stessi soltanto nelle cose, sono istintivamente attratti dal dogmatismo e dal naturalismo, che insegna loro che tutto è deterministicamente dato e fatalisticamente predisposto. Dall’altro ci sono individui che avendo il senso profondo della propria libertà e indipendenza dalle cose risultano spontaneamente portati a simpatizzare con l’idealismo, che insegna loro come esser-uomini sia sforzo e conquista.
Le due strade della filosofia sono:
1) DOGMATISMO che punta sulla cosa astraendo dall’io e parte dall’oggetto per arrivare al soggetto. E’ la filosofia della necessità (rispecchia un temperamento passivo).
2) IDEALISMO che punta sull’io astraendo dalla cosa e parte dal soggetto per arrivare all’oggetto. E’ la filosofia della libertà (rispecchia un temperamento attivo).
L’io è la realtà originaria e assoluta che può spiegare sia se stesso, sia le cose, sia il rapporto tra se stesso e le cose. Per cui, è proprio questa doppia superiorità (etica e teoretica) dell’idealismo sul dogmatismo che spinge Fichte ad intraprendere quella via originale del pensiero umano che è l’idealismo.
Dall’azione reciproca dell’io e del non-io nasce sia la conoscenza (la rappresentazione) sia l’azione morale. Il realismo dogmatico ritiene che la rappresentazione sia prodotta dall’azione di una cosa esterna all’io e che la cosa sia indipendente dall’io ed anteriore ad esso. Fichte ammette che la rappresentazione sia il prodotto di un’attività del non-io sull’io, ma poiché il non-io è a sua volta posto o prodotto dall’Io, l’attività che esso esercita deriva proprio dall’Io ed è un’attività riflessa che dal non-io rimbalza all’io.
Fichte si proclama realista ed idealista al tempo stesso: realista perché alla base della conoscenza ammette un’azione del non-io sull’io, idealista perché ritiene che il non-io sia un prodotto dell’Io.
Perché il non-io pur essendo un effetto dell’io appare alla coscienza comune qualcosa di sussistente di per sé? Come si spiega che l’io è causa di una realtà di cui non ha esplicita conoscenza?
Al primo problema Fichte risponde con la teoria dell’immaginazione produttiva, atto con cui l’Io pone ovvero crea il non-io. Mentre secondo Kant l’immaginazione produttiva fornisce solo le condizioni formali dell’esperienza, per Fichte essa produce i materiali stessi del conoscere. Poiché l’immaginazione produttiva è l’atto stesso con cui il soggetto (l’Io infinito) si dispone a creare l’oggetto, risulta evidente che essa non potrà mai essere inconscia.
Per quanto riguarda il secondo problema la ri-appropriazione umana del non-io avviene attraverso una serie di gradi della conoscenza mediante una progressiva interiorizzazione dell’oggetto ad opera del soggetto. Fichte denomina questo processo di graduale riconquista conoscitiva dell’oggetto “storia programmatica dello spirito umano” e lo articola in sensazione (in cui l’io empirico avverte fuori di sé l’oggetto come un dato che gli si oppone), in intuizione (in cui si ha la distinzione fra soggetto-oggetto ed il coordinamento del materiale sensibile tramite lo spazio e il tempo), in intelletto (che fissa la molteplicità fluttuante delle percezioni spazio-temporali mediante rapporti categoriali stabiliti), in giudizio (che fissa e articola a propria volta la sintesi intellettiva), in ragione (che essendo la facoltà di astrarre da ogni oggetto in generale, rappresenta il massimo livello conoscitivo raggiungibile dal soggetto).
Struttura, elementi e tappe del conoscere:
1) L’ideal-realismo à la conoscenza è un’azione del non-io sull’io empirico (realismo)
à il non-io, è già un prodotto dell’Io e dell’immaginazione (idealismo)
2) L’immaginazione produttiva à per Kant è l’attività a priori che fornisce le condizioni formali dell’esperienza schematizzando il tempo secondo le varie categorie (schematismo trascendentale)
à per Fichte è l’attività creatrice inconscia degli oggetti, tramite cui l’Io, limitandosi, produce i materiali del conoscere
3) Gradi della conoscenza à sensazione (registrazione del dato)
à intuizione (coordinamento spazio-temporale dei dati)
à intelletto (categorizzazione della molteplicità spazio-temporale)
à giudizio (articolazione della sintesi intellettiva)
à ragione (atrazione dagli oggetti in generale)
La conoscenza presuppone l’esistenza di un io (finito) che ha dinanzi a sé un non-io (finito), ma non spiega il perché di tale situazione. Perché l’Io pone il non-io, realizzandosi come io conoscente finito? Il motivo è di natura pratica. L’Io pone il non-io ed esiste come attività conoscente solo per poter agire; l’io pratico costituisce la ragione stessa dell’io teoretico. Fichte ritiene di aver posto su solide basi poste da Kant il primato della ragion pratica sulla ragion teoretica che si può sintetizzare nella doppia tesi secondo cui noi esistiamo per agire e il mondo esiste solo come teatro della nostra azione. Agire significa imporre al non-io la legge dell’Io, ossia foggiare noi stessi e il mondo alla luce di liberi progetti razionali. Il carattere morale dell’agire consiste nel fatto che esso assume la forma del “dovere”. Per realizzare se stesso l’Io, che è costituzionalmente libertà, deve agire ed agire moralmente, ma non c’è attività morale dove non c’è sforzo e non c’è sforzo dove non c’è un ostacolo da vincere. Tale ostacolo è rappresentato dalla materia, il non-io. La posizione del non-io è quindi la condizione indispensabile affinché l’Io si realizzi come attività morale. Ad ogni modo l’infinità dell’Io non è mai una realtà conclusa, ma un compito incessante; l’Io è infinito poiché si rende tale, svincolandosi dagli oggetti che esso stesso pone e pone questi oggetti perché senza di essi non potrebbe realizzarsi come attività libera.
1) l’idealismo etico: l’Io determina il non-io mediante la libertà e il dovere realizzandosi come compito morale infinito e come sforzo mai concluso di spiritualizzazione del mondo.
2) il primato della ragion pratica in Kant allude al fatto che la morale ci dà sotto forma di postulati (libertà, immortalità, D.) ciò che la ragion teoretica ci nega, invece in Fichte allude al fatto che l’io risulta attività conoscitiva solo per poter agire.
3) per quanto riguarda il moralismo l’io esiste in vista dell’azione morale mentre il non-io esiste alla stregua di materiale dialettico dell’attività dell’Io.
Secondo Fichte, il dovere morale può essere realizzato dall’io finito solo insieme agli altri io finiti. Ammessa l’esistenza di altri esseri intelligenti, io sono obbligato a riconoscere ad essi lo stesso scopo della mia esistenza, cioè libertà . In tal modo, ogni io finito risulta costretto non solo a porre dei limiti alla sua libertà ma anche ad agire in modo tale che l’umanità nel suo complesso risulti sempre più libera;l’uomo ha la missione di vivere in società, se viene isolato non è un uomo intero e completo. Il fine supremo ed ultimo della società è la completa unità e l’intimo consentimento di tutti i suoi membri. Per realizzare questo scopo si richiede una mobilitazione del dotto che per Fichte deve essere l’uomo moralmente migliore del suo tempo e deve farsi maestro ed educatore del genere umano. Il fine supremo di ogni singolo uomo, come di tutta la società, e quindi del dotto è il perfezionamento morale di tutto l’uomo.
Il processo politico fichtiano si svolge attraverso fasi evolutive diverse, sulle quali esercitano il loro influsso le vicende storiche contemporanee, dalla Rivoluzione francese (che Fichte inizialmente difende dagli attacchi del pensiero reazionario) alle guerre napoleoniche e all’invasione della Germania che stimolano lo sviluppo della sua filosofia in senso nazionalistico. In due scritti del 1793 Fichte dimostra di condividere una visione contrattualistica ed antidispotica dello Stato, particolarmente sensibile al tema della libertà di pensiero. Fichte afferma che lo scopo del contratto sociale è l’educazione alla libertà, da cui è corollario il diritto alla rivoluzione. Infatti se lo stato non permette l’educazione alla libertà, ciascuno ha il diritto di rompere il contratto sociale e di formarne un altro dove la proprietà risulta essere il frutto del lavoro produttivo. Fichte sostiene inoltre che il fine ultimo della vita comunitaria sia la “società perfetta”, intesa come insieme di esseri liberi e ragionevoli e considera lo Stato come semplice mezzo finalizzato al proprio annientamento. Fichte si sofferma anche sul problema giuridico-politico facendo dello Stato il garante del diritto. A differenza della moralità, che è fondata soltanto sulla buona volontà, il diritto vale anche senza la buona volontà. Esso concerne esclusivamente le manifestazioni esterne della libertà del mondo sensibile, cioè le azioni, ed implica perciò una costrizione esterna, che la moralità esclude. In virtù dei rapporti di diritto, l’io pone a se stesso una sfera di libertà, che è la sfera delle sue possibili azioni esterne e si distingue da tutti gli altri io ponendosi come persona o individuo. La persona individuale non può agire nel mondo se il suo corpo non è libero da ogni costrizione. I diritti originari e naturali dell’individuo sono perciò tre: la libertà, la proprietà e la conservazione. Questi diritti non possono essergli garantiti se non da una forza superiore che può essere esercitata soltanto dalla collettività degli individui, cioè dallo Stato. Lo Stato quindi non elimina il diritto naturale, ma lo realizza e lo garantisce.
Nello Stato commerciale chiuso (1800) Fichte afferma che lo Stato non deve limitarsi solamente soltanto alla tutela dei diritti originari, ma deve anche rendere impossibile la povertà, garantendo a tutti i cittadini lavoro e benessere. Polemizzando contro il liberismo e il mercantilismo e difendendo il principio secondo cui tutti devono essere subordinati al tutto sociale e partecipare con giustizia ai suoi beni, Fichte perviene ad una forma di statalismo socialistico (perché basato su di una regolamentazione statale della vita pubblica) ed autarchico (perché autosufficiente sul piano economico). Il socialismo statalistico di Fichte non implica, propriamente, comunismo, ossia l’eliminazione della proprietà privata dei mezzi di produzione. Egli ritiene infatti che gli strumenti di lavoro debbano appartenere a chi li usa; in Fichte il diritto alla proprietà è fatto scaturire dal dovere etico al lavoro.
Dopo aver dedotto le varie classi sociali degli agricoltori e dei lavoratori dell’industria mineraria (i produttori di base della ricchezza), degli artigiani, degli operai e degli imprenditori (i trasformatori delle ricchezze9 e dei commercianti, degli insegnanti, dei soldati e dei funzionari (i diffusori della ricchezza materiale e spirituale), Fichte dichiara che lo Stato ha il compito di sorvegliare l’intera produzione e distribuzione dei beni. Per svolgere il suo compito in tutta libertà ed efficienza lo Stato deve organizzarsi come un tutt’uno chiuso, senza contatti con l’estero, sostituendo in tal modo l’economia liberale di mercato ed il commercio mondiale con un’economia pianificata e con l’isolamento degli stati. Tale “chiusura commerciale” risulta possibile quando lo Stato ha tutto ciò che occorre alla fabbricazione dei prodotti necessari e là dove questo manchi lo Stato può avocare a sé il commercio estero e farne monopolio. Questa autarchia ha pure il vantaggio di evitare gli scontri tra stati che nascono da contrapposti interessi commerciali.
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