giovedì 30 luglio 2009

Lett. Italiana: Giuseppe Ungaretti

La vita: Giuseppe Ungaretti nasce nel 1888 ad Alessandria d’Egitto. Terminati gli studi frequenta i circoli culturali della città e, anche tramite i giornali francesi, approfondisce la conoscenza del Decadentismo. Nel 1912 parte per Parigi per frequentare l’università; sosta in Italia, che ancora non conosce. A Parigi entra a far parte di un mondo culturale ricco di fermenti e di personalità d’eccezione. Segue le lezioni di filosofi come Bergson e Bédier, conosce i poeti Apollinaire e Breton, i pittori Braque, Picasso, de Chirico, Modigliani. Frequenta anche Marinetti e altri intellettuali italiani di chiara ispirazione futurista. Allo scoppio della prima guerra mondiale si trasferisce a Milano. quando l’Italia entra in guerra nel maggio 1915, si arruola subito ed è inviato al fronte. Combatte come fante sul Carso (l’esperienza gli ispira le poesie di IL PORTO SEPOLTO, edito nel 1916) e, verso la fine della guerra, in Francia. Nel dopoguerra torna a Parigi, lavora presso l’ambasciata italiana ed è corrispondente del “Popolo d’Italia”, fondato da Mussolini. Pubblica una raccolta di versi in francese, La Guerre, e collabora a riviste letterarie. Nel 1919 esce, in Italia, la raccolta ALLEGRIA DI NAUFRAGI. Nel 1921 si trasferisce a Roma. Nel 1933 la pubblicazione di “Sentimento del tempo” lo consacra come poeta maturo. Nel 1936 pubblica il primo volume delle “Traduzioni” (le ultime usciranno nel 1965, nelle quali traduce soprattutto dall’inglese, dal francese e dallo spagnolo). Nel medesimo anno accetta l’offerta di insegnare italiano all’Università di San Paolo del Brasile. L’esperienza è interessante, ma questi anni sono funestati prima dalla morte del fratello, poi del figlio Antonietto. Costretto a tornare in Italia nel 1942, ottiene l’incarico di docente di letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Roma. Sempre nel 1942 pubblica tutte le poesie nella raccolta mondadoriana “ Vita d’un uomo”. pubblica nel 1947 “Il dolore” , nel 1950 “ La terra promessa”, nel 1952 “Un grido” e “Paesaggi”, nel 1960 “Il taccuino del vecchio”.

L’edizione definitiva dei suoi versi è del 1969 “Vita d’un uomo. Tutte le sue poesie”. Muore nel 1970 a Milano .

Le opere e i temi

Primo Ungaretti

L’Allegria: La raccolta “L’Allegria” del 1931, comprende le poesie scritte a Milano fra il 1914 e il 1915, quelle composte durante il primo anno di guerra e pubblicate nel 1916 col titolo “Il porto sepolto”, e le successive scritte sino al 1919 già edite a Firenze come “Allegria di naufragi”. Il nucleo più importante verte sull’esperienza di soldato compiuta da Ungaretti nelle trincee, dove si è sempre a contatto non solo con la morte, ma soprattutto con la “fisicità” di questa. Per contrasto, l’ossessiva presenza della morte conferisce al poeta una grande passione per la vita e un intenso sentimento di fratellanza verso gli uomini. Qui sta anche il significato del titolo, che riporta allo stato d’animo del naufrago che è sfuggito alla morte e che vuole vivere, nonostante tutto. Della vita che si può perdere da un momento all’altro si apprezzano le cose che veramente contano, e che sono appunto quelle che il poeta rappresenta, con parole anch’esse ridotte all’essenziale. “Fratelli”, “San Martino del Carso”, “Soldati”, sono liriche in cui Ungaretti rende le sensazioni del suo stato d’animo durante i giorni di guerra. Alcune composizioni “In memoria”, “I fiumi” rimandano invece alla sua esperienza, precedente la guerra, di “sradicato” che cerca una patria. La poesia di Ungaretti equivale a una discesa nelle profondità dell’io , per riportare alla luce frammenti di verità: questi possono consistere anche in brevissime immagini, suscitate nel poeta dalla contemplazione della natura, come la notissima “Mattina”.

Secondo Ungaretti

Sentimento del tempo: Le poesie di “Sentimento del tempo” (composte fra il 1919 e il 1933) sono solo in apparenza più “tradizionali” rispetto alle precedenti. Ungaretti vi persegue con coerenza la tematica della poesia come rivelazione di una verità che giace nel profondo del suo “io”. Il ritrovamento nella natura e nella vita umana di questa dimensione dà al poeta l’ansia di trovare valori eterni, che superino il breve spazio di ciò che è contingente. In questo bisogno si esplica la religiosità del poeta, che da un lato aspira ad una innocenza che l’uomo moderno ha perduto, dall’altro riscopre la sua “anima” e le sue esigenze, la prima delle quali è il bisogno di Dio.

Ungaretti evoca vari momenti del giorno e dell’anno, oppure momenti della sua esistenza con un atteggiamento mai descrittivo, ma che ha l’aspetto della “rivelazione”, espressa sempre in forma non logica, sulla condizione umana. Alcune liriche sono veri e propri inni, ricchi di sentimento religioso: a sottolineare il tempo più remoto in cui l’umanità era innocente.

Terzo Ungaretti

Il dolore: in “Il dolore” vi è l’esperienza del dolore, sia personale (la morte del fratello e soprattutto del figlio ) sia universale (la guerra). Dal dolore nasce però sempre una condizione positiva.

Le ultime raccolte: L’ultima fase della poesia di Ungaretti tocca due diverse tematiche. La prima, contenuta soprattutto nella raccolta “Il dolore” , è quella della sofferenza, legata sia a eventi drammatici vissuti dal poeta, quali la morte del fratello e successivamente del figlio Antonietto di nove anni, sia a quelli che colpiscono una comunità intera. Il tema del dolore è fortemente rappresentato anche nella raccolta “Un grido e paesaggi”, del 1952. L’altra tematica è presente soprattutto in “ LA TERRA PROMESSA”, opera incompiuta, edita nel 1950: si tratta di un poema centrato sulla figura di Enea che raggiunge il luogo che gli è destinato e, metaforicamente, allude a un ritorno di Ungaretti stesso alle “origini”: attraverso modalità fortemente simboliche, il poeta racconta la speranza di ottenere una qualche conoscenza di un mondo perfetto, un mondo perduto ma di cui in qualche modo l’uomo ha mantenuto il ricordo.

Poetica: Ungaretti compone poesie per un lungo arco di tempo, circa sessant’anni, durante i quali la sua concezione della poesia rimane fedele ad alcuni principi fondamentali. La sua formazione letteraria si compie in un primo tempo in Egitto, poi in Francia. In tal modo egli non ha alcun senso di sudditanza verso i modelli poetici allora imperanti in Italia, quindi Pascoli e D’Annunzio; non ha rapporti neppure con i crepuscolari, altra corrente di inizio secolo. E’ invece profondamente influenzato dalla poesia francese contemporanea, quella delle “avanguardie” di Mallarmé, Apollinaire e dalle idee futuriste conosciute a Parigi. La sua poesia nasce sempre da un dato psicologico, legato alla sua esperienza biografica, ma non si propone di descrivere realisticamente alcuna realtà, neppure quelle interiori. La lirica che dà il nome alla sua prima raccolta, “Il porto sepolto”, significativamente allude a un antico porto sepolto nel fondo del mare davanti ad Alessandria d'Egitto. La poesia equivale a una rivelazione al poeta stesso di una intuizione che era sepolta nella sua coscienza o nella sua memoria e che illumina un aspetto della realtà assoluta delle cose (quasi fosse un segreto). La poesia di Ungaretti si compone quindi di intuizioni, che sono altrettante scoperte di un frammento dell’immensità che circonda l’uomo.

Lo stile: Le scelte stilistiche di Ungaretti sono rivoluzionarie, ma pienamente coerenti con la sua concezione della poesia. Nel primo nucleo di liriche “L’Allegria” egli rifiuta il verso e la sintassi tradizionale per valorizzare al massimo la parola poetica, “isolandola” nella pagina o inserendola in versi brevissimi. Nel suo verso libero, privo di rime e perfino di punteggiatura, ogni parola sembra nascere come evocata da un lontano silenzio, ed essa si carica di una fortissima tensione emotiva e assume valore simbolico, spesso anche fonosimbolico, vibrando di una sua propria risonanza interiore. Sono fortemente scandite le pause, gli “a capo” e soprattutto gli spazi bianchi, che equivalgono ai silenzi da cui la parola nasce. Ungaretti attribuisce grandissima importanza all’analogia, che stabilisce un nesso solo psicologico fra oggetti diversi. Nelle raccolte successive Ungaretti sembra ritornare alle forme metriche della tradizione lirica, endecasillabo e settenario, alle strofe, alla punteggiatura, a una sintassi più elaborata. La sua intenzione non è però, quella di “ritornare all’ordine”. Le immagini sono spesso fortemente contrapposte con valore simbolico; la sintassi è sempre lineare, il ritmo è fortemente scandito e ricco di silenzi e pause cariche di tensione emotiva.

Lett. Italiana: Gabriele D'Annunzio

Gabriele D’Annunzio in Italia riprenderà le teorie dell’estetismo. Egli nasce a Pescara nel 1863, e la sua vita va studiata attentamente perché egli attraverso la sua vita spiega l’arte. D’Annunzio proviene da una famiglia borghese, si trasferisce a Roma per l’università non portando a termine gli studi perché preso dalla mondanità. D’Annunzio rifiuta l’emarginazione dell’intellettuale della società, volendo diventare un punto di riferimento per l’aristocrazia e diventerà un poeta “Vatae”. Si dedicherà alle belle donne e di lui si ricorda la famosa impresa sul cielo di Vienna e anche l’impresa di Fiume. Questo modello di uomo eccezionale poteva fare ombra a Mussolini e per questo motivo da una parte fu elogiato dal fascismo ma dall’altro Mussolini gli fece fare una vita controllata per non fargli ombra.

Per quanto riguarda l’ideologia di D’Annunzio, possiamo dire che è pospolitica ossia lui va al di là delle ideologie politiche.

I critici dicono che D’Annunzio fa parte di quegli uomini che assumono una posizione per favorire i propri interessi personali. Egli è un antidemocratico e rifiuta le masse. Nonostante ciò egli fece di tutto per far diffondere il mito della massa.

POETICA: egli è l’espressione più alta della corrente dell’estetismo italiano. L’estetismo è appunto la ricerca della bellezza (la bellezza classica ricercava il bello ideale mentre la bellezza decadente è legata ad un’idea di corruzione e immoralità). Per D’Annunzio la parola deve essere musica. Altro elemento è quindi l’attenzione per la parola. Legato a questo ritroviamo il simbolismo con il Panismo ossia l’identificazione dell’uomo con la natura. Ultimo elemento è la poetica del superomismo. Egli fraintende gli scritti di Nietzsche, perché sottolinea la figura di un uomo che agisce senza coscienza di se stesso.

I romanzi di D’Annunzio sono stati criticati e la parte più apprezzata è quindi quella della prosa. Questa fase è chiamata “fase notturna” perché egli aveva gli occhi bendati.

PROSA: le prime prose appartengono al periodo in cui D’Annunzio è ancora influenzato dalla poetica di Capuana.

ROMANZI Più IMPORTANTI: sono 1)il Piacere; 2) il trionfo della morte e 3)le vergini delle rocce

1) scritto nel 1888 introduce nella cultura italiana di fine 800 la tendenza decadente e l’estetismo. Il protagonista è Andrea Sperelli un aristocratico innamorato di una donna. Il finale dimostrerà che il protagonista sarà uno sconfitto. Sperelli è stato il personaggio più noto e divulgato fra i tanti creati da D'Annuzio. Egli rappresenta la versione italiana dell'eroe decadente. Nel suo primo romanzo, quindi, D'Annunzio riversò tutto il decadentismo europeo, dimostrando già a venticinque anni una incredibile capacità di apprendimento e di elaborazione.

2) Scritto nel 1894. è un esempio di romanzo psicologico e sviluppa i tema del superomismo così come interpretato da D’Annunzio. Giorgio Aurispa è un giovane colto e raffinato di nobile discendenza, che ha abbandonato il suo paese natio per trasferirsi a Roma, scevro da qualsiasi impiego, grazie all’eredità lasciatagli dalla morte del suicida zio Demetrio. Aurispa intesse una relazione con una donna sposata, Ippolita Sanzio, che deciderà poi di abbandonare il marito in favore del protagonista. Il rapporto sentimentale nato tra i due ha quell’intensità violenta e sensuale cara a D’Annunzio e al suo modo decadende di descrivere la passione come opera d’arte. Persino l’amore per Ippolita alla fine non è capace di dare alcuna consolazione ed al protagonista non rimane altra scelta che quella di porre fine al “mal di vivere” che gli è insopportabile. Vi sono abbondanti ricorsi simbolici, come per il suicidio iniziale che presagisce la morte del protagonista

3) Scritto nel 1895. è uno dei romanzi in cui si parla del Superuomo. Claudio Cantelmo è discendente di una nobile famiglia. Egli è disgustato dalla società borghese in cui vive, regolata solo dalla legge del profitto; crede infatti che l’operosità borghese distruggerà ogni valore della civiltà. Decide quindi di lasciare un erede che riporti la società ai vecchi valori nobiliari, ormai travolti da quelli della plebe. Quindi vuole lasciare un Superuomo alle future generazioni e per questo va a cercare una donna adatta alla procreazione.

PRODUZIONE LIRICA: la più importante è quella delle “Laudi” comprende dei testi che cominciano ad essere scritti nel 1899. Queste laudi presuppongono la poetica supero mistica. (in Nietzsche il superuomo è un uomo nuovo che è consapevole della mediocrità sociale). Le laudi sono quindi la manifestazione a livello lirico di quello che è il programma del superuomo. Sono un progetto lirico immenso, dovevano essere divise in 7 libri come le Pleiadi (gruppo di stelle della costellazione del toro, e secondo la mitologia le 7 Pleiadi sono 7 sorelle figlie di Atlante e Pleione che dopo la morte si trasformarono in stelle). Saranno composti solo 4 libri: Maya, Elettra, Alcyone e Merope. Si chiamano laudi perché riprendono le laudi francescane esaltando la natura però si contrappongono a S. Francesco perché c’è un riferimento alla religione pagana. Un elemento unificante in questi 4 libri è il tema del viaggio, che è un viaggio che trae ispirazione da un viaggio vero di D’Annunzio.

Il primo libro,Maia, fu composto nel 1903 e pubblicato nello stesso anno; il sottotitolo, Laus Vitae, ne chiarisce i motivi ispiratori: una vitalistica celebrazione dell'energia vitale; un naturalismo pagano impreziosito dai riferimenti classici e mitologici. Il poema è la trasfigurazione mitica di un viaggio in Grecia, realmente compiuto da D'Annunzio. Il viaggio nell’Ellade è l'immersione in un passato mitico alla ricerca di un vivere sublime. Dopo di che il protagonista si reimmerge nella realtà moderna. Il mito classico vale a trasfigurare questo presente, riscattandolo dal suo squallore. Il passato modella su di sé il futuro da costruire. Per questo l'orrore della civiltà industriale si trasforma in una nuova forza e bellezza equivalente a quella dell'Ellade. Per questo il poema diventa un inno alla modernità capitalistica ed industriale, alle nuove masse operaie, docile strumento nelle mani del superuomo. Il poeta non si contrappone più alla realtà borghese moderna, ma la trasfigura in un'aurea di mito. Dietro questa celebrazione però si intravede la paura e l'onore del letterato umanista dinnanzi alla realtà industriale. Il poeta si fa comunque cantore di questa realtà, anche se si sente da essa minacciate, e diventa protagonista di miti oscurantisti e reazionari.
Il secondo libro, Elettra, composto tra il 1899 e il 1902 e pubblicato nel 1903, celebra gli eroi della patria (Notte di Caprera) e dell'arte (Per la morte di Giuseppe Verdi); nella terza parte sono cantate 25 "Città del silenzio" (Ferrara, Ravenna ecc.); nella quarta è il famoso Canto augurale per la Nazione eletta, che infiammò di entusiasmo i nazionalisti. È denso di propaganda politica diretta; esso ricalca la struttura ideologica di Maia, vi troviamo passato e futuro di gloria e bellezza in contrapposizione al presente. Parte del volume è costituito dai sonetti sulla “Città del Silenzio”, antica città italiana, densa dì passato, su cui si dovrà modellare il futuro. Costante è la celebrazione della romanità in chiave eroica.

Il terzo libro, Alcyone, fu pubblicato assieme al secondo e contiene per acquisito giudizio il meglio del D'Annunzio poeta ( 1) La pioggia nel pineto, 2) La sera fiesolana, 3) Stabat nuda Aestas). Alcione in apparenza si distacca dagli altri due: al discorso politico-celebrativo si sostituisce il tema lirico della fusione con la natura. È il diario ideale dì una vacanza estiva, da primavera a settembre. La stagione estiva è vista come la più propizia a consentire la pienezza vitalistica. Sul piano formale c'è la ricerca di una sottile musicalità e l'impiego di un linguaggio analogico, che si fonda su un gioco continuo di immagini corrispondenti. Alcione è stata la raccolta poetica più apprezzata dalla critica ed è stata definita poesia pura. Ma l'esperienza panica del poeta non è altro che una manifestazione del superuomo: solo la sua parola magica può cogliere ed esprimere l'armonia segreta della natura, raggiungere e rivelare l’essenza misteriosa delle cose. Alcione avrà una notevole influenza sulla lirica italiana del '900.

  1. Il poeta e la donna amata si trovano in una pineta della Versilia sotto la pioggia estiva e, vagando senza meta, si immedesimano nella natura e nelle sue voci. Nella lirica si intrecciano i temi della metamorfosi, dell'amore, della funzione musicale ed evocatrice della parola poetica.
    Il poeta invita Ermione a tacere e ad ascoltare la musica della pioggia. Egli è attento a cogliere le sfumature più diverse e le varie che le gocce di pioggia producono sulle piante del bosco. A questo concerto della pioggia partecipano anche le cicale con il loro canto e le rane, il cui verso sordo e roco si spegne nell'ombra di un luogo lontano e indeterminato. La metamorfosi. La sinfonia dei suoni conduce gradualmente l'uomo e la donna in una dimensione di sogno, entro la quale avvengono i riti metamorfici. Dapprima si confondono con il bosco (piove su i nostri vòlti silvan,), poi Ermione è paragonata agli elementi della natura (il volto come una foglia, le chiome come le ginestre), diventa quasi una ninfa del bosco (virente), infine si fondono entrambi con gli elementi della natura.. La lirica si chiude con la ripresa del tema della pioggia, quasi a prolungare quello stato di estasi cui sono pervenuti il poeta e la sua compagna.

  2. descrive una sera di inizio giugno. È divisa in tre strofe, che descrivono in tre quadri diversi, i tre momenti della sera (la fine del pomeriggio, la sera, e l’inizio della notte). Leggendo l'opera si percepisce la presenza di due figure: una maschile, rappresentata da un uomo che coglie le foglie di un gelso, e una femminile, l’amante del poeta, a cui D'Annunzio si rivolge durante tutta la poesia. Le strofe sono separate da tre versi, i quali iniziano a tutti con la fase “laudata si”, queste parole sono tratte dal cantico delle creature di San Francesco, a cui tutta la poesia è ispirata. Possiamo notare analogie e differenze tra le due opere: Francesco, in chiave cristiana, esaltava l'unità tra di Dio e le sue creature, D'Annunzio, laico, quella tra la natura e i suoi elementi.
  3. L'estate compare personificata nella prima strofa, in una fuggevole immagine femminile, appena intravista da un uomo nella calura estiva. La sua presenza si intuisce dal rumore prodotto dai sui piedi sugli aghi secchi dei pini e dal soprassalto della natura circostante, vegetale e animale, che, attraverso suoni e odori, sembra accelerare e intensificare il suo ritmo vitale. Nella seconda strofa l'uomo riesce non solo a sentire, ma anche a vedere la mitica creatura dai capelli rossi, mentre fugge nel bosco di ulivi, richiamata dal volo dell'allodola, che ne conosce il nome. Nella terza strofa l'inseguimento, provocato dal rumore secco della vegetazione si conclude sulla riva del mare, dove la donna compare nella sua misteriosa nudità, che coincide con quella della sabbia, del mare, del vento. La trasmutazione della donna negli elementi naturali che la compongono, suggerisce un'immagine sensuale dell'estate rappresentata come l'eros, la forza primordiale della vita. Il poeta può essere il fauno che insegue la ninfa, ma può essere anche Apollo che insegue Dafne riuscendo a raggiungerla solo quando è diventata un albero d'alloro. Se il fauno simboleggia l'eros, Apollo rappresenta invece la poesia, quella poesia che insegue il sogno impossibile di appropriassi della realtà e della natura (Dafne) riuscendo solo a evocarla attraverso la magia delle parole.

Il quarto libro, Merope, raccoglie i canti celebrativi della conquista della Libia composti ad Arcachon, pubblicati dapprima sul "Corriere della Sera" e poi in volume nel 1912.
Vengono considerati una continuazione di questi quattro libri i Canti della guerra latina, composti e pubblicati tra il 1914 ed il 1918 (costituiranno, in seguito, il volume intitolato Asterope, La canzone del Quarnaro). raccoglie i canti celebrativi della conquista della Libia composti ad Arcachon, pubblicati dapprima sul Corriere della sera e poi in volume nel 1912.

Lett. Italiana: Eugenio Montale

VITA: Eugenio Montale nacque a Genova nel 1896 ed era figlio di una famiglia di commercianti e importatori di prodotti chimici. frequenta l’Istituto Tecnico Commerciale, ma interrompe gli studi per dedicarsi alla musica e al canto. Nel 1917 partecipò come sottotenente alla Prima guerra mondiale e Nel 1919 veniva definitivamente congedato. Ritornato a Genova, s’inserì negli ambienti letterari. Intanto comincia a scrivere per riviste e giornali e nel 1925 dà alle stampe la sua prima raccolta di liriche “Ossi di seppia”. Nel 1927 si trasferisce a Firenze, dove va maturando la sua poetica. Nasce così la raccolta di poesie “Le occasioni” uscite nel ’39, intitolata così perché è la vita ad offrire spunti e occasioni per riflettere e capire che il vivere dell’uomo è “sconfitta” e “solitudine”. Scoppia la 2a guerra mondiale, una bufera che sconvolge l’Europa e il mondo intero. Da qui la terza raccolta poetica di Montale, “La bufera e altro”, uscita nel ’56, ma composta in gran parte negli anni spaventosi del conflitto. Sono visioni tragiche, di lutti, dolori e rovine. Il linguaggio qui é più chiaro e aperto, i temi e il tono sono polemici e drammatici. Nel ’67 viene nominato senatore a vita. Intanto, col passare degli anni, le tensioni e i ricordi del passato si sfocano nell’anima del poeta dando origine a momenti più sereni. Il linguaggio si fa ancora più semplice in “Satura”, l’ultima raccolta, i cui temi sono gli affetti familiari e il ricordo nostalgico della moglie da poco morta. Nel ’75 riceve il premio Nobel per la Letteratura. Muore a Milano nel 1981, a 85 anni.

POETICA: Montale è considerato il maggior poeta italiano del 900. La sua esperienza poetica copre gli anni fra il 1920 e il 1980. E’ possibile distinguere tre periodi della sua poetica: il periodo ligure, il periodo fiorentino e il periodo milanese

1925 Pubblicazione di “Ossi di seppia” (periodo ligure). In esso è racchiuso tutto il programma poetico di Montale: come il mare liscia e leviga con le sue onde gli ossi di seppia, così il poeta leviga e lima le sue liriche fino a ridurle all’osso, all’essenziale; sono, infatti, poesie povere, costruite con linguaggio semplice, comune, antilirico. I temi trattati riflettono la sua visione della vita, una visione pessimistica della condizione umana, simboleggiata spesso con immagini di paesaggio desolate.

1939 Pubblicazione di “Le Occasioni” (periodo fiorentino). Questa seconda raccolta di liriche, composte dal 1928 al 1939, è incentrata anch’essa sull’oggetto; sono frammenti del passato, un fluire di figure nella memoria, un contatto illusorio tra passato e presente. Il ricordo del passato che non ritorna più è espressione di una vana lotta contro il tempo che tutto dissolve e cancella. Da qui il desiderio del poeta di abbattere la barriera della solitudine, di trovare il “varco”, la possibile salvezza incarnata dalle figure femminili; ma la speranza di un miracolo svanisce sempre più e resta dolorosa tristezza e un senso amaro di smarrimento, d’angoscia di fronte ad una desolante esistenza.

1956 Pubblicazione di “La bufera e altro” (periodo milanese). Sono visioni di rovine, di lutti, di dolore. Il linguaggio diventò più aperto e comprensibile. E’ scomparso quell’aristocratico isolamento del poeta di Ossi di seppia e delle Occasioni; qui la sua anima vibra d’orrore e di rivolta. Il tono si fa polemico contro la classe dirigente che aveva portato l’Italia alla catastrofe, e molto drammatici diventano i temi che alla fine sfumano in quello della solidarietà umana. Nella Bufera usa forme aperte e periodi lunghi.

62-71 SILENZIO POETICO: legato al dolore per la morte della moglie e alla crisi economica , politica e culturale degli anni fra 1955 e 1963, che avevano portato alla massificazione e all’annientamento anche dell’arte.

1971 “Satura” E’ il nome arcaico della satira latina . E’ un tipo particolare di poesia: lo stile raffinato ed alto viene abbandonato per far prevalere l’aspetto prosastico e satirico ma in particolare Montale critica con la satira la società squallida in cui vive.

L’ultimo periodo di vita riguarda la produzione di una serie di diari, l’assegnazione di un premio Nobel e la proclamazione a senatore a vita.

La poetica: Egli usava una poetica fondamentalmente basata su valori semplici e veri.

Montale è un grande interprete di quella crisi dell’io e della società che caratterizza tanta letteratura del Novecento. A differenza di Ungaretti, Montale non abbandona mai il punto centrale della sua visione del mondo, che è la negatività totale, la consapevolezza del nulla e dell’aridità della vita.

La sua poesia non intende per nulla abbellire la realtà e mascherare il “male di vivere”; vuole invece dichiararla senza compiacimenti. Egli assorbe e rielabora la lezione di tre autori della cultura simbolista e decadente: Pascoli, D’Annunzio e Gozzano. Da Pascoli e, soprattutto, da Gozzano ricava la tendenza a rifiutare la parola poetica classica, colta, in favore di una parola precisa e comune. Di Gozzano accetta pure la sottile ironia e l’uso dell’accostamento di termini colti con termini colloquiali e quotidiani. Da D’Annunzio prende la tendenza a instaurare un rapporto privilegiato tra l’io e il paesaggio naturale, particolarmente quello marino, estivo e soleggiato.

Nella sua poesia, Montale adopera la tecnica, ricavata da alcune delle liriche del poeta inglese Thomas Stearns Eliot, del “correlativo oggettivo”: rappresentare oggetti che hanno valore emblemastico, perché fortemente collegati con sentimenti e sensazioni.

Lo Stile: Montale ritiene che la poesia debba opporsi al disordine della vita contemporanea. Ciò si traduce in una lirica che a volte adopera il verso libero, a volte ricorre ai metri tradizionali, specie l’encasillabo, alle strofe, alle rime. Molto particolare è il linguaggio che mescola forme colte letterarie a forme più comuni. Nelle successive raccolte troviamo un periodare incompleto, in cui mancano i verbi che potrebbero dare maggiore comprensione al testo. Nelle ultime opere il poeta usa uno stile sempre più ironico e spesso tagliente, e un linguaggio adatto a rendere la cronaca della vita quotidiana molto simile al linguaggio parlato. Particolare attenzione Montale attribuisce alla musicalità del verso, ai suoni spesso secchi e aspri che rimandano a quel senso di “male di vivere” che è il tratto più importante della sua poesia.

Lett. Italiana: Analisi testuale La luna e i falò

TRACCIA UN RITRATTO DEI SEGUENTI PERSONAGGI: ANGUILLA, NUTO E CINTO.

Anguilla: E’ il protagonista del romanzo e può essere considerato come lo stesso Pavese. E’ visto come un uomo molto legato ai ricordi. Lui è orfano sia di padre sia di madre e non si sa chi sono i suoi genitori naturali. È stato allevato da una famiglia di contadini, Padrino e Virgilia.

Nuto: E’ il miglior amico di Anguilla ed è una persona dalle molteplici capacità che ha svolto tantissimi tipi di lavoro. Suona il clarinetto. A questo personaggio l’autore affida la sua ansia di liberazione umana. Non è mai andato in giro per il mondo e la sua realtà è stata sempre quella del contadino di paese.

Cinto: Era un ragazzino debole, ma tanto interessato e curioso. Suo padre Valino era una sorta di padrone molto ingiusto. Un giorno questo fece una strage brucio la sua cascina con la sua famiglia e infine s’impiccò. Cinto riuscì a salvarsi. Anguilla affida il bambino alle cure dell’amico Nuto. L’adulto s’identifica nel bambino e cerca di trasmettergli la voglia di fuggire.

A CHI APPARTIENE LA VOCE NARRANTE?

La voce narrante appartiene ad Anguilla, il protagonista del romanzo.

LO SPAZIO DELLE LANGHE QUALE VALORE SIMBOLICO ASSUME?

Le langhe assumono come valore simbolico quello di donare al lettore le più alte testimonianze di disagio e di dolore dell’autore stesso ma in particolare i luoghi assumono una valenza simbolica in quanto le colline rappresentano le cose semplici, naturali, facili legate all’infanzia e il protagonista ha un rapporto strano con loro: da una parte le vede come casa sua in quanto ci ha vissuto da piccolo ma dall’altra non riesce mai a sentirle veramente sue.

PERCHE’ IL PROTAGONISTA TORNA AL SUO PAESE?

Egli torna al proprio paese per ritrovare se stesso, le sue radici, per confrontarsi con il proprio passato, per capire veramente che è diventato ricco, ma soprattutto per capire che dentro di se è sempre stato e rimarrà sempre un povero contadino.

QUALE REALTA’ TROVA ANGUILLA AL SUO RITORNO?

La realtà che trova Anguilla al suo ritorno è quella che le persone da lui conosciute sono scomparse e i luoghi stessi dove lui è cresciuto sembrano mutati. È rimasto solo Nuto, il compagno di un tempo, con il quale Anguilla rivive le vicende del passato.

COSA RAPPRESENTANO A TUO AVVISO LA LUNA E I FALO’?

Il titolo del libro, la luna e i falò è un chiaro riferimento alla vita contadina, che sta a indicare il legame di ognuno con la propria terra e le proprie tradizioni, come qualcosa di magico: secondo le credenze popolari infatti i falò accessi nella notte di San Giovanni, così come le fasi della luna, influenzano l’andamento dei raccolti; influenza intesa appunto in un senso magico e superstizioso. Nel procedere del romanzo però i falò assumeranno un altro valore: quello della morte, prima del Valino e poi di Silvia, fucilata e poi bruciata. Tutto questo infatti, superstizione e morte, sono visti dal protagonista come le uniche certezze della vita.

IN QUALE PERIODO STORICO SI COLLOCA LA VICENDA?

Questo romanzo è ambientato nell’agosto del 1948, ma in particolare gli episodi di cui si parla sono invece riferiti al periodo prima della guerra per quanto riguarda l’infanzia e la giovinezza, e al periodo durante la seconda guerra mondiale quelli riguardanti l’America.

FABULA E INTRECCIO COINCIDONO NEL ROMANZO? MOTIVA LA TUA RISPOSTA.

All’interno del romanzo Fabula ed Intreccio coincidono perché vi è un Parallelismo tra passato e presente tramite la presenza di numerosi flash-back.

IL ROMANZO, PUBBLICATO NEL 1950, COSTITUISCE L’ULTIMA OPERA DI PAVESE MORTO SUICIDA NELLO STESSO ANNO. QUALE SIGNIFICATO PUO’ ASSUMERE IL RITORNO ALLE ORIGINI DI ANGUILLA PER LO SCRITTORE?

Il significato che può assumere il ritorno alle origini di Anguilla per lo scrittore può essere spiegato tramite i parallelismi tra il narratore e l’autore stesso del romanzo che sono più di semplici coincidenze, infatti Cesare Pavese mette nel romanzo molta della sua vita, dei suoi pensieri, della sua insoddisfazione, probabilmente cerca lui stesso una ragione alla sua vita nel racconto, senza però trovarla ed identificandosi così nel protagonista. Molti sono d’accordo nel pensare che questo ultimo capolavoro dell’autore sia come un testamento, e che in esso si possano trovare i motivi che lo spinsero al suicidio

DOPO AVER SINTETIZZATO LA TRAMA IN NON PIU’ DI 10 RIGHE, PROVA A RINTRACCIARE I TEMI E I MOTIVI DEL ROMANZO.

Finita la guerra il protagonista Anguilla torna quarantenne nella sua terra, le Langhe, abbandonata vent'anni prima per cercare fortuna in America. Molte cose sono cambiate, ma i luoghi sembrano gli stessi e inducono così a tornare con la memoria all'infanzia. Egli era stato allevato con il sussidio mensile che passava l'ospedale di Alba per i trovatelli adottati e sfruttati nei campi dalle famiglie contadine nella cascina di Gaminella. Ora lì abita un'altra famiglia di dannati, quella del Valino, il vecchio mezzadro incattivito dalla fatica e dalla povertà. Anguilla fa amicizia con suo figlio, Cinto, un ragazzino solitario; e ritrova Nuto, falegname, con il quale rievoca le storie e i personaggi dell’adolescenza. Ma Nuto ha partecipato alla guerra partigiana, ha vissuto il dramma della guerra civile, l'odio, i processi, le esecuzioni, gli occultamenti dei cadaveri; e non ne parla volentieri. Qui si intrecciano le storie: la giovane figlia del padrone della Mora, la grande cascina dove Anguilla era passato a servizio dopo la morte del padre adottivo, la più bella e affascinante delle tre sorelle che animavano con la loro spensierata vitalità la vita della cascina, aveva collaborato con i repubblicani e i nazisti, infiltrandosi come spia tra i partigiani; scoperta, era stata fucilata e il suo corpo bruciato sulla collina. Ma un altro rogo scoppia: è Valino che, impazzito, stermina la famiglia, dà fuoco alla cascina e quindi s'impicca. Solo Cinto riesce, fortunosamente, a salvarsi e Anguilla lo affida a Nuto prima di ripartire.

Temi: Il tema presente in tutto il romanzo è quello del viaggio con tutto ciò che questo comporta: la nostalgia per quello che si è lasciato, la voglia di fuggire dalle situazioni, il ritorno sia fisico che mentale in luoghi che si erano lasciati ma che erano rimasti nella memoria, il senso di smarrimento quando non si è a casa propria.

Il tema dello smarrimento è un altro dei temi fondamentali: il protagonista è alla ricerca di identità; non conoscendo le sue radici non riesce a trovare un luogo a cui appartenere e che lui senta come proprio; cerca quindi conforto nei miti dell’infanzia nei quali Anguilla spera di poter ancora credere per trovare un punto di riferimento nella vita.
Infatti nonostante siano avvenute moltissime cose durante la sua assenza il paesaggio e la mentalità sono rimasti gli stessi che lui ricordava.
Altro tema è il rapporto tra la città e l’America viste come cose lontane, utopie, e la realtà e la semplicità della vita contadina.

Lett. Italiana: analisi testuale il Fu Mattia Pascal

QUALI RAGIONI INDUCONO IL NARRATORE A SCRIVERE IL ROMANZO?

La narrazione è condotta in prima persona; è Mattia Pascal, il protagonista, che raccontando ci fornisce il suo punto di vista interno con focalizzazione 0 (zero/onnisciente). L'onniscienza del narratore è dovuta dal fatto che lui racconta la sua storia a posteriori, quando questa è già successa; questo permette che al lettore vengano fornite anticipazioni degli avvenimenti che ne stimolano la curiosità.Mattia Pascal scrive, su invito di don Eligio, la sua biografia sotto forma di diario, rivolgendosi direttamente al lettore, dialogando persino con lui.L'ordine cronologico è regressivo, cioè lo scrittore ricorda fatti avvenuti in precedenza e va a ritroso nel tempo, salvo tornare al presente alla fine del racconto.

SUDDIVIDI E RIASSUMI L’INTRECCIO SECONDO LE TRE PRINCIPALI SEQUENZE CRONOLOGICHE IN UN TESTO CHE NON SUPERI LE 150 PAROLE E STENDI UNA BREVE RECENSIONE DEL ROMANZO. DAI UN TITOLO CALDO AL TESTO

Questo testo è possibile suddividerlo in tre sequenze principali:

1- Quando il protagonista è ancora Mattia Pascal

2- Quando il protagonista diventa Adriano Meis

3- Quando il protagonista torna ad essere Mattia Pascal

Il protagonista, Mattia Pascal, lavora in una biblioteca nel paese di Mirano, dove vive con il fratello e la madre vedova. Mattia Pascal narra delle sue prime avventure amorose, la prima con Oliva, da cui avrà un figlio, ma che non sposerà mai, perché già fidanzata con il signor Malagna, ed in seguito con Romilda Pescatore, la ragazza che inizialmente Mattia voleva far fidanzare col suo amico Pomino, ma che poi sposerà. Questo matrimonio è la rovina sia economica che psicologica di Mattia, perché causa una serie di disagi, procurati soprattutto dalla suocera Marianna Dondi la quale, insieme ad alcune disgrazie familiari, lo condurranno al punto di fuggire da casa pensando di crearsi una nuova identità lontano da Mirano. Nel frattempo vicino al canale di Miragno, viene trovato il cadavere di un uomo in cui tutti riconoscono Mattia Pascal. In un primo momento il signor Pascal decide di rientrare a Miragno, ma poi si rende conto che non e' il caso di tornare a casa e prende la decisione di cambiare vita. Mattia Pascal vive così per oltre due anni viaggiando senza meta, senza documenti, sotto il falso nome di Adriano Meis, ma dopo aver viaggiato per molte città decide di stabilirsi a Roma dove trova alloggio in casa del Signor Anselmo Paleari. Il Paleari vive con la figlia Adriana della quale, col passare dei mesi, il protagonista si innamora. In seguito Adriano Meis viene derubato in casa Paleari e quindi decide di inscenare nuovamente la sua morte e di tornare a Miragno per riprendersi la sua vera identità che aveva perso non a causa della sua presunta morte, ma per sua volontà. La prima tentazione di Mattia fu di riprendersi sua moglie ma una volta giunto a Miragno e giunto in casa di Pomino (ormai marito di sua moglie) vide una bambina, figlia dei due coniugi e quindi Mattia decide di non riprendersi sua moglie e la sua vita.

Un titolo “caldo” potrebbe essere: “Storia di un uomo e della sua doppia identità”

CARATTERIZZA, NELLE SUE DIVERSE INCARNAZIONI, IL PROTAGONISTA, DAL PUNTO DI VISTA FISICO, SOCIALE E PSICOLOGICO

Mattia Pascal (Adriano Meis): è il protagonista – narratore; un bibliotecario che svolge quotidianamente un lavoro normale, forse anche troppo; riflette sulle sue azioni, le giudica e le motiva; segue le vicende della sua vita, è partecipe del racconto e cerca di far luce nel groviglio dei casi, la sua figura perde ed acquista caratteristiche dei due personaggi che porta dentro di se, facendo apparire Adriano Meis come una figura disarticolata di uomo ombra. Il suo carattere gli impedisce di vivere al di fuori delle strutture sociali e dallo stato civile.Nei panni di Mattia Pascal appare come un uomo di carattere impulsivo, vivace, ma confusionario, a differenza di quando si “trasforma” in Adriano Meis, dove si scopre uomo molto sensibile; ama Adriana, donna che vorrebbe sposare, ma non può a causa della sua “non esistenza”.

ANALIZZA LE FIGURE FEMMINILI DEL ROMANZO:

Madre del protagonista: è una persona fiduciosa verso il prossimo, credente, chiusa ed introversa, affezionata alla sua piccola vita quotidiana. È semplice e dolce, non vuol mai far notare la sua presenza, quasi per non dare fastidio.

Zia scolastica: zia battagliera, fiera, che si contrappone alla figura della madre a causa delle sue scelte decise ed immediate.

Romilda: è la moglie del protagonista; è una ragazza vittima della perfidia della madre, che le impone di ingannare Mattia. Ha due figlie dal marito. È timida, gelosa e non sopporta le condizioni misere in cui è costretta a vivere, arrivando fino ad ammalarsi. Dopo la “morte” del marito, si sposa con un amico di lui (Pomino), dal quale ha una figlia. Ma il suo animo non è cattivo; infatti al ritorno di Pascal è quasi dispiaciuta per quello che gli è successo.

Marianna Dondi (vedova del pescatore): è la madre di Romilda; ha un temperamento intrigante e furioso, non sopporta il genero, che giudica inetto e scapestrato, perché non riesce a mantenere la sua famiglia, e quindi indegno di sua figlia. Fa diventare la vita di Pascal insopportabile. È dura con il genero anche quando questi ritorna al suo paese, avendo pensato, dopo la sua morte solo alle sostanze materiali, dimenticandosi del tutto della sua esistenza.

Signorina Silvia Caporale: ha anche lei vive in una camera nella pensione e da qualche lezione come maestra di canto. È alcolizzata e zitella, ha una personalità debole e ogni volta che rientra dopo aver bevuto o quando si dispera per la sua condizione di zitella ed il suo aspetto fisico tocca ad Adriana farle da “mammina”. È l’amante e la complice di Terenzio Papiano, dal quale è sfruttata; nell’imbrogliona il ruolo di medium, ma alla fine si ribella al suo sfruttatore per aiutare Adriano ed Adriana come può.

Adriana: figlia del Paleari, è l’affittuaria di Adriano Meis, del quale è innamorata. Ha una personalità molto sensibile, ma allo stesso tempo armata di innocenza e ansia. Manda avanti da sola la casa ed è dispiaciuta per il comportamento del padre; riesce a continuare il suo lavoro grazie anche alla sua fede nella religione. Non da molta confidenza, vuol nascondere il suo amore per Adriano Meis e non sopporta i soprusi di Terenzio.

Pepita Pantogada: nipote dello spagnolo, bella, con un carattere prepotente e forte.

TEMPO DELLA STORIA E TEMPO DEL DISCORO

Per quanto riguarda il tempo dello svolgimento dei fatti, non viene fatto nel racconto alcun riferimento a date o periodi.

RINTRACCIA NEL ROMANZO QUALCHE PASSO RIFERIBILE ALLA POETICA DELL’UMORISMO (DOMANDA LEGATA ANCHE ALLA N.5)

Pirandello volle collegare esplicitamente il romanzo al libro L’umorismo, che infatti uscì nel 1908 portando la dedica “Alla buonanima di Mattia Pascal bibliotecario”. In effetti, i due capitoli iniziali di Premessa e l’intero capitolo XII , dedicato allo strappo nel cielo di carta di un teatrino e alle sue conseguenze, sono veri e propri contributi teorici alla poetica dell’umorismo, in parte ripresi e rielaborati nel saggio del 1908. Nella Premessa seconda, la nascita del relativismo moderno e dell’umorismo sono fatti dipendere dalla scoperta di Copernico e dalla fine dell’antropocentrismo tolemaico: la rivelazione che l’uomo non è più al centro del mondo e che, al contario, costituisce un’entità minima e trascurabile di un universo infinito e inconoscibile rende assurde le sue pretese di conoscenza e di verità e relative tutte le sue fedi.

Significativo è un passo della Premessa seconda (filosofica, passo riportato qui di seguito:

- Non mi par più tempo, questo, di scriver libri, neppure per ischerzo. In considerazione anche della letteratura, come per tutto il resto, io debbo ripetere il mio solito ritornello:Maledetto sia Copernico!

- Oh oh oh, che c’entra Copernico! – esclama don Eligio, levandosi su la vita, col volto infocato sotto il cappellaccio di paglia.

C’entra, don Eligio. Perché, quando la Terra non girava…

- E dàlli! Ma se ha sempre girato!

- Non è vero. L’uomo non lo sapeva , e dunque era come se non girasse. Per tanti, anche adesso, non gira. L’ho detto l’altro giorno ad un vecchio contadino, e sapete come m’ha risposto? ch’era una buona scusa per gli ubriachi. Ma lasciamo star questo. Io dico che quando la Terra non girava, e l’uomo, vestito da greco o da romano, vi faceva così bella figura e così altamente sentiva di sé e tanto si compiaceva della propria dignità, credo bene che potesse riuscire accetta una reazione minuta e piena d’oziosi particolari. […]

Ma che volete che me n’ importi? Siamo o non siamo su un’ invisibile trottolina, cui fa da ferza un fil di sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira, senza saper perché, senza pervenir mai al destino? […] Copernico, Copernico, don Eligio mio, ha rovinato l’umanità irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell’ infinita nostra piccolezza, a considerarci men che niente nell’universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni; e che valore dunque volete che abbiano le notizie, non dico delle nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci ormai, le nostre.[…]

Dimentichiamo spesso e volentieri di essere atomi infinitesimali per rispettarci ed ammirarci a vicenda, e siamo capaci di azzuffarci per un pezzettino di terra o di dolerci di certe cose, che, ove fossimo veramente compenetrati di quello che siamo, dovrebbero parerci miserie incalcolabili”.

(cit. pag. 24 - 25)

Nel capitolo XII, invece, si descrive quanto succede in seguito allo strappo nel cielo di carta di un teatrino: l’eroe tradizionale, Oreste, esempio di eroe coerente e sicuro, si distrae di fronte all’ imprevisto, di fronte all’ “oltre” che gli si spalanca davanti, e perciò vede cadere ogni naturalezza e spontaneità del proprio agire: cessa di vivere e comincia a guardarsi vivere trasformandosi e divenendo di fatto un antieroe. Lo strappo è qualcosa che rivela la natura fittizia della rappresentazione; allegoricamente, un evento che mostra come la vita sia una recita e come la forma nasconda la sostanza. Di seguito si riporta la pagina in cui Anselmo Paleari, in questo caso portavoce dell’autore, enuncia la trasformazione di Oreste, tipico eroe della tragedia, in un moderno Amleto:

“ - La tragedia di Oreste in un teatrino di marionette – venne ad annunziarmi il signor Anselmo Paleari. – Marionette automatiche, di nuova invenzione. Stasera, alle ore otto e mezzo, in via dei Prefetti, numero 54. Sarebbe da andarci, signor Meis.

- La tragedia d’Oreste?

- Già! D’après Sophocle, dice il manifestino. Sarà l’ Elettra. Ora senta un po’ che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei.

- Non saprei, - risposi, stringendomi ne le spalle.

- Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe sconcertato da quel buco nel cielo.

- E perché?

- Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gli impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, tra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta.

E se ne andò, ciabattando. […]

L’immagine della marionetta d’ Oreste sconcertata dal buco nel cielo mi rimase un pezzo nella mente. A un certo punto : “Beate le marionette”, sospirai, “su le cui teste di legno il finto cielo si conserva senza strappi! Non perplessità angosciose, né ritegni, né intoppi, né ombre, né pietà: nulla! e possono attendere bravamente e prender gusto alla loro commedia e amare e tener se stesse in considerazione e in pregio, senza soffrir mai vertigini o capogiri, poiché per la loro statura e per le loro azioni quel cielo è un tetto proporzionato”.

(cit. pag. 118)

Detto questo, nell’edizione del 1921, Pirandello aggiunge al romanzo un’ Avvertenza sugli scrupoli della fantasia. Discutendo pubblicamente sulla verosimiglianza della trama, Pirandello sottolinea il carattere artificioso della costruzione romanzesca. Si ottiene una sorta di sdoppiamento del romanzo: da un lato esso è presentato come storia accaduta, per il fatto che il protagonista lascia il manoscritto con su la propria vicenda con “l’obbligo che nessuno possa aprirlo se non dopo la sua terza, definitiva e ultima morte” ; dall’altro si discute se tale storia può essere accaduta o meno. Dunque ogni verità è relativa, anche quella romanzesca.

Ovviamente, ne Il fu Mattia Pascal, l’umorismo non è solo teorizzato, ma anche messo in pratica. Una tipica scena umoristica, per esempio, è quella, nel cap. V, in cui, dopo la zuffa fra la vedova Pescatore e la zia Scolastica, Mattia, davanti allo specchio, vede sul suo viso lacrime sia di dolore che di riso : l’atto dell’auto riflessione e dello sdoppiamento, la mescolanza dei contrari (il riso e il pianto), il doloroso ma autoironico compatimento nei propri confronti, il fatto che l’occhio di Mattia si ferma su un dettaglio buffo e paradossale quale quello delle gambe che la vecchia vedova Pescatore mostra, involontariamente, al genero sono tutti aspetti dell’atteggiamento umoristico tipico di Pirandello:

Zia Scolastica scattò in piedi, si tolse furiosamente lo scialletto che teneva su le spalle e lo lanciò a mia madre:

- Eccoti! lascia tutto. Via subito!

E andò a piantarsi di faccia alla vedova Pescatore. […]

Quindi afferrò per un braccio mia madre e se la trascinò via.

Quel che seguì fu per me solo. La vedova Pescatore, ruggendo dalla rabbia, si strappò la pasta dalla faccia, dai capelli tutti appiastricciati, e venne a buttarla in faccia a me, che ridevo in una specie di convulsione; m’afferrò la barba, mi sgraffiò tutto; poi, come impazzita, si buttò per terra e cominciò a strapparsi le vesti addosso, a rotolarsi, a rotolarsi, frenetica, sul pavimento; mia moglie intanto (sit venia verbo) receva di là, tra acutissime strida, mentr’ io:

-Le gambe! le gambe! – gridavo alla vedova Pescatore per terra. – Non mi mostrate le gambe, per carità!

Posso dire che da allora ho fatto il gusto a ridere di tutte le mie sciagure e d’ogni mio tormento. Mi vidi, in quell’istante, attore d’una tragedia che più buffa non si sarebbe potuta immaginare: mia madre, scappata via, così, con quella matta ; mia moglie, di là, che… lasciamola stare!; Marianna Pescatore lì per terra; e io, io che non avevo più pane, quel che si dice pane, per il giorno appresso, io con la barba tutta impastocchiata, il viso graffiato, grondante non sapevo ancora se di sangue o di lagrime, per il troppo ridere. Andai ad accertarmene allo specchio. Erano lagrime; ma ero anche sgraffiato bene. Ah quel mio occhio, in quel momento, quanto mi piacque! Per disperato, mi s’era messo a guardare più che mai altrove , altrove per conto suo. E scappai via, risoluto a non rientrare in casa, se prima non avessi trovato comunque da mantenere, anche miseramente mia moglie e me”.

(cit. pag. 48-49)

IL MOTIVO DELLO SPECCHIO RICORRE PIU’ VOLTE NEL ROMANZO ED E’ LEGATO AL TEMA DELLO SDOPPIAMENTO. ANALIZZA QUALCHE BRANO RELATIVO AL TEMA E RICOSTRUISCI I MODI IN CUI IL PERSONAGGIO ESPRIME LA PROPRIA CRISI D’IDENTITA’

La funzione dello specchio ne Il fu Mattia Pascal è quella di indurre il personaggio che si specchia a volgere la sua coscienza a considerarsi. In questa vicenda il protagonista si trova in ben tre occasioni davanti ad uno specchio, ognuna delle quali svolge un ruolo ben preciso nell’organizzazione della narrazione.La prima volta che Mattia Pascal si guarda allo specchio è dopo una furiosa lite familiare, epilogo tempestoso di un lungo periodo di rapporti molto tesi fra lui stesso, la moglie e soprattutto la suocera. La situazione è effettivamente grottesca, a vederla dall’esterno, ma per chi vi è coinvolto è senz’altro tragica. Il capitolo è intitolato non a caso Maturazione, perché quella situazione e quella prima volta davanti allo specchio segnano l’inizio della maturazione psicologica del protagonista, della prima presa di coscienza della sua identità.

“Posso dire che da allora ho fatto il gusto a ridere di tutte le mie sciagure e d’ogni mio tormento. Mi vidi, in quell’istante, attore d’una tragedia che piú buffa non si sarebbe potuta immaginare: mia madre, scappata via, cosí, con quella matta; mia moglie, di là, che . . . lasciamola stare!; Marianna Pescatore lí per terra; e io, io che non avevo piú pane, quel che si dice pane, per il giorno appresso, io con la barba tutta impastocchiata, il viso sgraffiato, grondante non sapevo ancora se di sangue o di lagrime, per il troppo ridere. Andai ad accertarmene allo specchio. Erano lagrime; ma ero anche sgraffiato bene. Ah quel mio occhio, in quel momento, quanto mi piacque! Per disperato, mi s’era messo a guardare piú che mai altrove, altrove per conto suo. E scappai via, risoluto a non rientrare in casa, se prima non avessi trovato comunque da mantenere, anche miseramente, mia moglie e me. (54–55)”

La seconda volta che il protagonista si ritrova davanti ad uno specchio è proprio nel momento in cui cambia identità: scelto un altro nome decide di adeguare anche l’aspetto al nuovo nome, e perciò si affida ad un barbiere. Il titolo del capitolo, Adriano Meis, non è scelto a caso nemmeno questa volta.

“Il brav’uomo, tutto sudato, mi porgeva uno specchietto perché gli sapessi dire se era stato bravo.

Mi parve troppo!

—No, grazie,—mi schermii.—Lo riponga. Non vorrei fargli paura.

Sbarrò tanto d’occhi, e:

—A chi?—domandò.

—Ma a codesto specchietto. Bellino! Dev’essere antico . . .

Era tondo, col manico d’osso intarsiato: chi sa che storia aveva e donde e come era capitato lí, in quella sarto-barbieria. Ma infine, per non dar dispiacere al padrone, che seguitava a guardarmi stupito, me lo posi sotto gli occhi.

Se era stato bravo!

Intravidi da quel primo scempio qual mostro fra breve sarebbe scappato fuori dalla necessaria e radicale alterazione dei connotati di Mattia Pascal! Ed ecco una nuova ragione d’odio per lui! Il mento piccolissimo, puntato e rientrato, ch’egli aveva nascosto per tanti e tanti anni sotto quel barbone, mi parve un tradimento. Ora avrei dovuto portarlo scoperto, quel cosino ridicolo! E che naso mi aveva lasciato in eredità! E quell’occhio!

“Ah, quest’occhio,” pensai, “cosí in estasi da un lato, rimarrà sempre suo nella mia nuova faccia! Io non potrò far altro che nasconderlo alla meglio dietro un pajo d’occhiali colorati, che coopereranno, figuriamoci, a rendermi piú amabile l’aspetto. Mi farò crescere i capelli e, con questa bella fronte spaziosa, con gli occhiali e tutto raso, sembrerò un filosofo tedesco. Finanziera e cappellaccio a larghe tese.” (104–05)”

Nel terzo caso in cui il personaggio si trova davanti allo specchio—nel capitolo L’occhio e Papiano—egli è spaventato dal fatto che uno dei suoi padroni di casa, Papiano appunto, un individuo poco affidabile, una sera inviti un certo spagnolo che il protagonista aveva conosciu-to a Monte Carlo quando era ancora Mattia Pascal.

La paura di esser riconosciuto come Mattia Pascal porta per ben due volte Adriano Meis davanti allo specchio.

Mi trovai, senza saperlo, davanti allo specchio, come se qualcuno mi ci avesse condotto per mano. Mi guardai. Ah quell’occhio maledetto! Forse per esso colui mi avrebbe riconosciuto. Ma come mai, come mai Papiano era potuto arrivare fin lí, fino alla mia avventura di Montecarlo? Questo piú d’ogni altro mi stupiva. Che fare intanto? Niente. Aspettar lí che ciò che doveva avvenire avvenisse. (187)”

E poco dopo:

“Non potendo con altri, mi consigliai di nuovo con lo specchio. In quella lastra l’immagine del fu Mattia Pascal, venendo a galla come dal fondo della gora, con quell’occhio che solamente m’era rimasto di lui, mi parlò cosí: In che brutto impiccio ti sei cacciato, Adriano Meis! Tu hai paura di Papiano, confessalo! e vorresti dar la colpa a me, ancora a me, solo perché io a Nizza mi bisticciai con lo Spagnuolo. Eppure ne avevo ragione, tu lo sai. Ti pare che possa bastare per il momento il cancellarti dalla faccia l’ultima traccia di me? Ebbene, segui il consiglio della signorina Caporale e chiama il dottor Ambrosini, che ti rimetta l’occhio a posto. Poi . . . vedrai!” (189)”

Le funzioni dello specchio sono dunque molteplici. Esso è uno strumento che Pirandello utilizza per risvegliare l’autocoscienza e l’autoriflessione nel protagonista attraverso la percezione del lato comico della tragedia; esso è lo strumento con cui viene mostrata la realtà costruita, innaturale, della seconda identità del protagonista fin dalla sua creazione; ed è infine lo strumento con cui viene sottolineata la condizione di spettatore nei confronti della vita di chi vuol vivere al di là dei legami sociali che costituiscono una vera identità.

ELENCA I TEMI PRINCIPALI DEL ROMANZO

1. L'infanzia e la maturazione (capitoli I-IV)

· Identità

· Amore (Pomino, Romilda, Oliva, Mattia)

· Lavoro e società à solitudine (biblioteca)

2. da Mattia ad Adriano (capitoli VI-VII)

· Essere-apparire

· Ricerca dell'identità

· Libertà aspirata

3. Adriano a Roma (capitoli VIII-XVI)

· Viaggio

· Amore

4. Il Fu Mattia Pascal (capitoli XVII-XVIII)

· Pietà

· Identità / non identità

QUALE CONCEZIONE DELLA FAMIGLIA EMERGE

La concezione che emerge della famiglia è in modo negativo perché al protagonista appare come una prigione.